Aristotele, l’immortalità dell’anima nell’Eudemo

Gli scritti esoterici

Come noto dalla storia tramandata da Strabone, gli scritti di Aristotele sono giunti a noi per vie alquanto tortuose. Alla morte del filosofo di Stagira, avvenuta nel 322 a.C., i rotoli (il corrispettivo dei libri dell’epoca) passarono a Teofrasto, suo successore alla guida dal Liceo, e da questi a Neleo, che li avrebbe portati da Atene alla natia Scepsi. Lì rimasero per due secoli nascosti in un sotterraneo, finché all’inizio del I secolo a.C. un bibliofilo, Apellicone di Teo, li acquistò, per quanto deteriorati, e li riportò ad Atene, facendone anche varie copie. In questa opera di trascrizione Apellicone integrò di suo le parti di testo mancanti o danneggiate. Pochi anni dopo, a seguito della conquista di Atene dell’86 a.C., Silla trasferì i manoscritti a Roma, dove furono studiati dal grammatico Tirannione di Amiso prima e dal filologo e filosofo Andronico di Rodi poi. Quest’ultimo, che fu anche scolarca del Liceo, approntò la prima edizione delle opere di Aristotele (e anche di Teofrasto) non rispettando la suddivisione originale, ma, come ci racconta Porfirio, raggruppando in trattati singoli i vari testi che affrontavano lo stesso tema. Questa edizione farà da base per tutte le successive.

Andronico non ci ha però consegnato tutti i testi di cui abbiamo notizia, ma solo una parte di quelli cosiddetti esoterici (interni, destinati alla scuola) o acroamatici (da akroasis, ascolto, vale a dire che solo gli studenti potevano udirne il contenuto). Lasciando da parte il dibattito sulla natura di questi scritti (ovvero se si trattasse di appunti oppure dispense preparate da Aristotele, di trascrizione da parte degli studenti delle sue lezioni, di opera collettiva comprendente le osservazioni di Aristotele e quelle degli studenti, e ancora, quali e quante interpolazioni e correzioni furono effettivamente apportate da Andronico) quel che è certo è che gli esoterici rappresentavano solo una parte della produzione del nostro filosofo. Sono però gli unici che possiamo leggere oggi.

Gli essoterici

L’altra parte è costituita dagli scritti essoterici o esterni, principalmente destinati alla pubblicazione e quindi a una diffusione non circoscritta a un’utenza di discepoli. L’elenco tramandatoci da Diogene Laerzio include diciannove opere, delle quali ci rimangono oggi solo titoli e frammenti, ovvero testimonianze di autori posteriori. Furono redatte principalmente nei vent’anni di permanenza di Aristotele all’interno dell’Accademia platonica, fra il 367 e il 347 a.C., ma anche, successivamente, durante il periodo trascorso a Pella come precettore di Alessandro Magno. Differiscono dagli esoterici in particolare per la forma. Se la lettura dei testi a noi pervenuti, vista la loro natura di materiale non rifinito, risulta faticosa e talvolta anche noiosa, lo stesso non poteva dirsi degli scritti pubblicati che, dando fede alle testimonianze di Cicerone e Quintiliano, erano caratterizzati da eleganza e soavità. Si trattava principalmente, ma non solo, di dialoghi, ispirati a quelli platonici, dei quali in alcuni casi riprendevano anche il titolo. Come quelli facevano uso di miti e racconti leggendari. Erano redatti in forma letterariamente curata e, soprattutto, divulgativa, a differenza dei trattati caratterizzati da un rigore argomentativo apprezzabile solo dagli “addetti ai lavori”.

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EDUCAZIONE DI ALESSANDRO DA PARTE DI ARISTOTELE, ILLUSTRAZIONE DI CHARLES LAPLANTE PUBBLICATA IN “VITE DI STUDIOSI ILLUSTRI” DI LOUIS FIGUIER, 1866

Più sfumata, rispetto a quella stilistica, la differenza di contenuto. È innegabile che negli scritti essoterici Aristotele appaia più dipendente da Platone rispetto alle opere della maturità, ma vanno anche rilevate in essi prese di distanze dalle dottrine del maestro che manifestano l’elaborazione di un pensiero autonomo. Su questo però, e in particolare sul clima di grande libertà che caratterizzava lo studio nell’Accademia, torneremo in altra occasione. Qui conta sottolineare che in nessuna circostanza Aristotele prese le distanze dalla propria produzione essoterica, che anzi viene richiamata più di una volta all’interno degli esoterici. Occorre quindi dare ai dialoghi il valore che, secondo lo stesso Aristotele, meritano, senza cedere alla tentazione di derubricarli a “peccati di gioventù”.

Il sogno

Nella serie di opere destinate alla pubblicazione rientra un dialogo che tratta il tema dell’immortalità dell’anima umana, Sull’anima, anche conosciuto come Eudemo. Eudemo di Cipro fu compagno di studi di Aristotele nell’Accademia. Militò a Siracusa nella fazione del defunto Dione, re illuminato che aveva sostenuto le idee politiche di Platone, contro quella del nuovo tiranno Callippo. Lì trovò la morte in battaglia, probabilmente nel 354 a.C. Secondo Chroust questo evento luttuoso originò la stesura sia del dialogo Sull’Anima di Aristotele sia della celebre Lettera VII di Platone. Tuttavia la redazione di quest’ultima sembrerebbe maggiormente legata alla morte di Dione, di poco precedente. Sull’anima si ricollega al platonico Fedone che, oltre a essere il testo fondante della metafisica occidentale, è fulgido esempio di consolatio mortis, genere letterario popolare nel mondo greco e anche romano (subito giungono alla mente le consolazioni di Seneca), che si propone di rendere più sopportabile a chi rimane l’assenza del defunto.

Il primo frammento del perduto dialogo aristotelico ci arriva dal De Divinatione ad Brutum di Cicerone, che narra come Eudemo apprese con cinque anni di anticipo della propria morte e che questa va considerata come un ritorno a casa: “Egli (Aristotele) scrive che il suo amico Eudemo di Cipro durante un viaggio in Macedonia giunse a Fere, città della Tessaglia allora assai importante, ma assoggettata alla crudeltà del tiranno Alessandro. In quella città Eudemo si ammalò a tal punto che tutti i medici temettero per la sua vita. Sognò allora un bel giovane che gli disse che si sarebbe ripreso presto, che entro pochi giorni il tiranno Alessandro sarebbe morto, e che cinque anni dopo lui stesso, Eudemo, sarebbe tornato a casa. Aristotele scrive che le prime due predizioni si avverarono immediatamente: Eudemo si riprese e il tiranno fu ucciso dai fratelli di sua moglie. Ma verso la fine del quinto anno, quando il sogno lo aveva portato a sperare che sarebbe tornato dalla Sicilia a Cipro, Eudemo morì in battaglia a Siracusa. E così il sogno fu interpretato nel senso che quando l’anima di Eudemo lasciò il suo corpo, fece ritorno a casa” (De Divinatione ad Brutum, I, 25, 53).

Fuggire dal tempo

Il valore accordato al sonno e al sogno come condizione nella quale l’anima è in grado di evadere, per così dire, dalle catene del tempo e viaggiare nel passato e nel futuro, è confermato da due frammenti del quasi coevo dialogo Sulla filosofia. Il primo ci è tramandato da Sesto Empirico: “Quando l’anima, nel sonno, si raccoglie in se stessa, assume la sua vera natura, profetizza e preannuncia il futuro. Così è anche quando, nell’istante della morte è separata dal corpo. E dunque Aristotele approva anche quanto osservato da Omero, il quale rappresentò Patroclo che, nel momento della propria morte, presagì l’uccisione di Ettore, e Ettore che presagì la fine di Achille. Fu da tali eventi, dice, che gli uomini vennero a sospettare l’esistenza di qualcosa di divino, di ciò che è per sua natura affine all’anima” (Adversus mathematicos, III, 20-23). Il secondo è riportato ancora da Cicerone: “Dunque, quando il sonno ha liberato la mente dalla compagnia e dal contatto del corpo, allora essa si ricorda del passato, discerne il presente e prevede il futuro; infatti il corpo di colui che dorme giace come fosse il corpo di un morto, ma la sua mente è sveglia e viva … e così quando la morte sta per sopraggiungere è ancora più divina” (De Divinatione ad Brutum, I, 30, 63).

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FRONTESPIZIO DELL’EDIZIONE DEFINITIVA DEI FRAMMENTI DI ARISTOTELE CURATA DA VALENTIN ROSE, 1886

L’anima è insomma viva ventiquattro ore al giorno, non solo nel tempo della veglia; anzi proprio nel sonno è al pieno delle sue facoltà e lo è ancor di più in prossimità della morte. Lo conferma la testimonianza di al-Kindi: “Aristotele racconta di un re greco, la cui anima era rapita nell’estasi, che per molti giorni rimase come sospeso tra la vita e la morte. Quando tornò in sé, il re raccontò agli astanti varie cose nel mondo invisibile collegate a ciò che aveva visto: anime, forme e angeli. Ne diede prova predicendo a tutti i suoi conoscenti quanto tempo sarebbe vissuto ciascuno di loro. Ciò che disse fu messo alla prova e nessuno eccedette la durata della vita che egli aveva assegnato. Profetizzò inoltre che dopo un anno si sarebbe aperta una voragine nel paese di Elis e dopo due anni si sarebbe verificata un’alluvione in un altro luogo; e tutto accadde come aveva detto. Aristotele così spiega la ragione di questo fenomeno: l’anima del re aveva acquisito questa conoscenza perché era stata vicina a lasciare il proprio corpo ed era stata in un certo modo separata da esso, e così vide ciò che vide. Quante più grandi meraviglie del mondo di lassù avrebbe visto, se davvero avesse lasciato il suo corpo!” (cod. Taimuriyye Falsafa 55).

L’inconveniente di essere nati

Da Plutarco apprendiamo che Aristotele, si sarebbe spinto ancora oltre, affermando, nel narrare l’incontro tra Mida e Sileno, che meglio sarebbe non essere mai nati e, se nati, morire il prima possibile (Moralia, Consolatio ad Apollonium, 115 b-e). È evidente qui il riferimento, oltre che all’orfismo di cui il platonismo era imbevuto, a passi della tradizione letteraria greca. Aveva scritto Teognide: “Non nascere è per gli uomini la miglior cosa, né vedere i raggi acuti del sole; ma, una volta che siamo nati, varcare al più presto le porte dell’Ade e giacere sotto un tumulo alto” (Elegie, 425-428). E Sofocle: “Molto meglio non essere nati. Ma, una volta nati, fare ritorno da dove si è venuti è destino ancora migliore” (Edipo a Colono, 1225-1228). Queste affermazioni, così come le riporta Plutarco, vanno comunque inquadrate alla luce dell’intento del dialogo, che come già ricordato è di tipo consolatorio. Asserire che la morte è preferibile alla vita è uno sprone a non piangere chi se ne è andato e anzi a rallegrarsi per lui.

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RITRATTO DI ARISTOTELE, COPIA ROMANA IN MARMO DI UN ORIGINALE GRECO DI LISIPPO DEL 330 A.C. CA., PALAZZO ALTEMPS, ROMA

Secondo la testimonianza di Filopono, Aristotele, sulla scia di quanto già esposto da Platone nel Fedone, respinge poi la concezione dell’anima come accordo o armonia del corpo (ovvero che a ogni corpo, quasi fosse uno strumento musicale, corrisponde, dipendentemente dalla tensione e combinazione delle “corde” che lo compongono, una determinata armonia), obiettando che l’armonia ha un contrario, cioè la disarmonia, ma l’anima non ha contrari. La disarmonia del corpo può piuttosto identificarsi con la malattia e la bruttezza, e la sua armonia con la salute e la bellezza. Ma l’anima non è nulla di ciò, prova ne è che anche il più brutto degli uomini, Tersite, aveva un’anima (In Aristotelis De Anima, 141.22-147.10). Insomma, non può accadere che l’anima muoia con il dissolvimento del corpo come l’armonia cessa di essere se non vi è strumento che la produce. L’anima non è un prodotto del corpo, ma anzi lo governa.

La memoria dell’anima

Se è vero che l’anima è immortale e quindi sopravviverà alla vita che sta conducendo ora e ad essa preesisteva, com’è possibile che non ricordi nulla di quanto accadutole in precedenza? Noi costruiamo la nostra identità sulla base delle esperienze acquisite: dunque, se quella memoria viene cancellata, chi siamo? È opportuno richiamare qui due osservazioni. La prima è che, nel momento in cui si scompare o appare in questo piano di esistenza, non ha molto senso parlare di prima o di dopo, visto che il tempo misura il durante di questa specifica vita, e non il tempo della Vita, che invece può essere considerata fuori dal tempo. La seconda è che il modo migliore per fare un’esperienza, ci riferiamo nuovamente a quella di una specifica vita, è assente di pregiudizi e preconcetti; conseguentemente, privo di eventuali precisi ricordi di un ipotetico passato (si veda, a titolo di esempio, la scena delle anime che, giunte ai Campi Elisi, bevono dal fiume della dimenticanza nel libro VI dell’Eneide di Virgilio). Aristotele, da parte sua, a chi vede nella mancanza di memoria dell’anima una prova della sua mortalità, risponde utilizzando l’analogia della salute e della malattia. Riferisce Proclo: “Il divino Aristotele, inoltre, afferma il motivo per cui l’anima che da lassù arriva qui dimentica le cose che là aveva visto, e invece andandosene da qui ricorda lassù le esperienze di qui. Dobbiamo accettare l’argomento, poiché è lo stesso (Aristotele) a rilevare che durante il loro viaggio dalla salute alla malattia alcune persone dimenticano anche le lettere che avevano imparato, ma che nessuno sperimenta ciò quando passa dalla malattia alla salute; e la vita senza il corpo, essendo quella naturale per le anime, è come la salute; mentre la vita nel corpo, in quanto innaturale, è come la malattia. Perché là vivono secondo natura, ma qui contro natura” (In Platonis Rempublicam, II, 349, 13-23).

Immortalità mortale

Nel Protreptico, esortazione alla filosofia che risale agli stessi anni dell’Eudemo, Aristotele accentua ulteriormente la dicotomia fra soprasensibile e sensibile, arrivando a paragonare, come riferisce Giamblico, la vita nel corpo al più orribile dei supplizi: “È parola ispirata degli antichi che l’anima stia scontando una pena e che noi viviamo per la punizione di grandi peccati. La congiunzione dell’anima con il corpo è molto simile a questa: come si dice che i Tirreni spesso torturassero i prigionieri, legandoli vivi faccia a faccia con i cadaveri, adattando parte a parte, così l’anima sembra essere distesa e incatenata a tutte le membra sensibili del corpo” (Giamblico, Protreptico, VIII, 47.24-48.9).

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BENOZZO GOZZOLI, TRIONFO DI SAN TOMMASO D’AQUINO, TEMPERA SU TAVOLA DI PIOPPO, 1450/1475, MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI

Eppure giorno verrà in cui la tortura avrà fine. Il corpo perirà e, come abbiamo visto, l’anima tornerà alla sua patria. Ma di quale anima si tratta? Di quella del singolo uomo, Eudemo in questo caso, o piuttosto di un’anima (intelletto) impersonale, dalla quale tutti gli uomini sono illuminati solo per il tempo della vita corporea? In altre parole, l’anima individuale (sia essa intesa come intera anima o sola anima razionale) sopravvive o cessa di esistere alla morte del corpo? Se ci affidiamo agli scritti essoterici, è evidente che va privilegiata la prima ipotesi. Se invece spostiamo l’attenzione ai trattati esoterici, che presentano il pensiero più maturo di Aristotele, e in particolare al celebre libro III de L’anima, la questione si fa intricata, tanto da essersi imposta, dal IV secolo a.C. e fino ai giorni nostri, come una delle maggiori controversie nella storia della filosofia. Per concentrare in pochissime righe un dibattito che nel corso dei millenni ha prodotto milioni di pagine, nei testi di scuola Aristotele sembrerebbe (il condizionale qui è davvero necessario) negare la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte. L’anima, da forma indipendente e provvisoriamente imprigionata nel corpo, com’era in Platone e nell’Aristotele essoterico, diviene ora atto del corpo, ad esso indissolubilmente legata e con esso destinata a perire. Ciò che crediamo essere la parte immortale della nostra anima, ovvero l’ intelletto attivo, è in realtà una sostanza separata e unica per tutti gli uomini, che coincide con il primo motore immobile del libro XII della Metafisica (chiamiamolo anche, con una certa forzatura, Dio). Possiamo arrivare, pensandolo in atto, a identificarci con Dio e quindi essere noi stessi Dio e come Lui immortali, ma questo può accadere solo finché il corpo non si corrompe. Insomma, il massimo cui possiamo ambire è un ossimoro: un’immortalità mortale. Tale è l’esegesi del commentatore per eccellenza di Aristotele, Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.), che verrà sostanzialmente ribadita quasi mille anni dopo dall’altro grande commentatore, Ibn Rušd, maggiormente noto col nome di Averroè. È pacifico che si tratta di una interpretazione, alla quale se ne contrappone una altrettanto persuasiva, sostenuta in particolare da San Tommaso d’Aquino, che invece rivendica, sempre sulla scorta del testo aristotelico, l’immortalità dell’anima, attribuendo a ciascuna anima individuale l’intelletto attivo. Ma cosa effettivamente Aristotele avesse inteso comunicare con le sue criptiche affermazioni sull’intelletto “separabile, impassibile, non mescolato, immortale ed eterno” non lo sapremo mai. La delusione di non conoscere la risposta è ampiamente compensata dal fatto che il dubbio instillato dal filosofo continua ad alimentare le nostre domande e la nostra ricerca. E quindi a mantenerci vivi.


Bibliografia essenziale

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Aristotelis qui ferebantur librorum fragmenta, a cura di Valentin Rose, Teubner, Lipsia 1886.

Aristotelis opera (ex recensione I. Bekkeri, ed. 2), III: Librorum Deperditorum Fragmenta, a cura di Olof Gigon, De Gruyter, Berlino e New York 1987.

BERTI Enrico, Aristotele, dalla diallettica alla filosofia prima, Bompiani, Milano 2004.

BOS Abraham P., The relation between Aristotle’s lost writings and the surviving aristotelian corpus, in Philosophia Reformata, vol. 52, no. 1, 1987, pp. 24–40.

CHROUST Anton-Hermann, Eudemus or On the soul: a lost dialogue of Aristotle on the immortality of the soul, in Mnemosyne, vol. 19, no. 1, 1966, pp. 17–30.

CHROUST Anton-Hermann, The psychology in Aristotle’s lost dialogue Eudemus or On the soul, in Acta Classica, vol. 9, 1966, pp. 49–62.

JORI Alberto, Aristotele, Bruno Mondadori, Torino 2003.

MORAUX Paul, L’Évolution d’Aristote in Aristote et Saint Thomas d’Aquin: journées d’études internationales, Publications univeristaires de Louvain, Lovanio 1957.

PEROLI Enrico, Una nuova interpretazione delle opere perdute di Aristotele, in Rivista di filosofia neo-scolastica, vol. 83, no. 4, 1991, pp. 495–511.

Diogene, il cane di Sinope

Libertà di parola e di azione. Diritti che, nel tempo che stiamo vivendo, sussistono in astratto per tutti e ciascuno di noi, ma che nella pratica riesce sempre più difficile esercitare. Questo avviene non solo nei Paesi ad esplicita vocazione dittatoriale, ma, in una certa misura, anche in quelli apertamente democratici. Se nei primi la limitazione alle libertà personali è brutale e dichiarata, nei secondi si procede in maniera insidiosa e per sottrazione progressiva, sicché prenderne atto, e conseguentemente opporsi ad essa, risulta particolarmente arduo. Il fenomeno è condensato nella nota metafora della rana bollita. Se metti una rana in una pentola di acqua bollente, salterà subito fuori; ma se alzi lentamente la temperatura la rana rimarrà dentro, all’inizio incapace di percepire cosa sta accadendo, in seguito troppo debole per reagire e scappare, finché non morirà.

Rispetto agli anfibi la nostra situazione di esseri umani è ulteriormente complicata dalla presenza di due attori, i media e i social media, che decantano le virtù della pentola, dove tutti dovremmo immergerci “per il nostro bene e per il bene comune”. Si alimenta così la fabbrica del consenso nella quale ogni voce dissonante dal paradigma dominante diventa, ea ipsa, antidemocratica. Ci ritroviamo insomma nella situazione preconizzata da Aldous Huxley ne “Il mondo nuovo”, romanzo distopico del 1932 che molti citano ma quasi nessuno ha letto, il cui contenuto è solitamente così sintetizzato: la dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri dalla quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire; un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù. Così, tra censure dei comportamenti e delle idee (che spesso diventano autocensure per evitare lo stigma e l’isolamento sociale, se non addirittura la persecuzione giudiziaria) e propagatori di fake news grottescamente incaricati dai giganti del web e dell’editoria di individuare fake news, le vite di tutti si riducono ad altrettanti esercizi di conformismo. Ci vorrebbe uno scatto di orgoglio e di coraggio. Ci vorrebbe un Diogene, che della battaglia contro le convenzioni fece prassi quotidiana due millenni e mezzo fa.

La virtù è nelle azioni

Prima di Diogene, però, c’era Antistene. Discepolo di Gorgia, poi di Socrate, alla morte di quest’ultimo fu tra i filosofi più in vista nell’Atene del IV secolo a.C.. A lungo si è ritenuto che fosse l’iniziatore della scuola cinica, derivando quel nome dal liceo del Cinosarge (cane agile) in cui si tenevano le lezioni. Più di recente si è giunti alla provvisoria conclusione che Antistene non fondò alcuna scuola e che il nome di “cinici”, attribuito agli esponenti di quel movimento filosofico, non si legasse all’edificio del Cinosarge, ma fosse dovuto al loro stile di vita essenziale, da cani appunto; sia in riferimento alla condotta ignara delle convenzioni sociali e priva di comodità da essi praticata, sia per la vigilanza che esercitavano, in primo luogo su se stessi. Il significato assunto oggi dal termine “cinico” (che va a indicare una persona priva di morale e sensibilità, e anche di rispetto e fiducia negli ideali umani e nelle regole della società) non è dunque pienamente sovrapponibile a quello originario.

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JEAN-LÉON GÉRÔME, DIOGENE, OLIO SU TELA, 1860, THE WALTERS ART MUSEUM, BALTIMORA

In ogni caso Antistene tracciò la linea che fu seguita, e anche radicalizzata, da Diogene, ponendo l’attenzione sull’importanza dell’autodominio e dell’autarchia, prerequisiti per raggiungere la totale libertà. Secondo Antistene “la virtù è nelle azioni e non ha bisogno né di moltissime parole né di moltissime cognizioni” (DL, VI, 11). Ci troviamo di fronte a uno sviluppo parziale del socratismo, nel quale l’attenzione alla teoria della conoscenza è minima, anzi assente, e massima è quella alla pratica quotidiana, che si esplica nell’addestramento o esercizio interiore (askesis) attraverso il quale, come un atleta in una palestra, ci si allena alla virtù. Nello scrivere dei cinici, allora, si lascerà spazio soprattutto alla descrizione dei loro comportamenti, che rimandano a una filosofia del concreto, del fare; anticulturale e proprio per questo popolare: una “filosofia del proletariato greco” per usare la definizione data da Göttling e poi rilanciata da Gomperz. Ma anche, come vedremo con Diogene, caratterizzata da eccessi che apparivano tali nel mondo antico e probabilmente farebbero scandalo anche oggi: “Il modo di pensare dei cinici è da rifiutare per intero, poiché è ostile al pudore, senza il quale non sono possibili la rettitudine e l’onestà” (Cicerone, De officiis, I, 148).

Adoxia

Tutto ciò che possedevano i cinici – almeno quelli delle prime generazioni, in seguito la loro rigidità si ammorbidì alquanto – erano un mantello, una bisaccia, un bastone. La felicità, che è l’orizzonte di ogni filosofia antica, consiste nel non aver bisogno di nulla, diceva Antistene, che vedeva nel piacere un intralcio alla virtù e nella atuphia (assenza di illusioni o false opinioni che la società vuole imporre) e nella adoxia (mancanza di gloria e di fama) un bene. Soprattutto quest’ultimo messaggio, nella nostra epoca dominata dalla ricerca spasmodica della visibilità e del pubblico riconoscimento, è di rottura radicale, così come l’esaltazione della fatica (ponos), incarnata dalla figure di Eracle, oggi relegata a disvalore nell’ottica di un successo ottenuto senza sforzo.

Ai cinici non mancava il gusto della battuta, che poi a ben vedere è solo un parlar chiaro. La maggior parte dell’aneddotica che li riguarda ci è stata tramandata da Diogene Laerzio, autore dei dieci libri delle Vite e dottrine dei filosofi illustri, 82 brevi biografie che vanno da Talete a Epicuro (tutte le citazioni tratte dalle Vite le indichiamo per brevità con l’acronimo DL). A chi gli chiedeva perché riprendesse aspramente i suoi discepoli, Antistene rispondeva: “Anche i medici gli infermi” (DL, VI, 4). A chi invece lo rimproverava perché non evitava di parlare con i malvagi, replicava: “Anche i medici stanno in compagnia dei malati, ma non hanno la febbre” (DL, VI, 6). A uno che gli disse “molti ti lodano”, rispose: “Ho fatto forse qualcosa di male?” (DL, VI, 8). Richiesto di quale frutto avesse tratto dalla filosofia, affermò: “Il poter conversare con me stesso” (DL, VI, 6). A un sacerdote che gli diceva che nell’aldilà gli iniziati partecipavano di molte cose, ribatté: “Perché dunque non muori?” (DL, VI, 4). L’intero libro VI delle Vite è dedicato ai cinici: tra essi figura anche Ipparchia, fra le prime donne filosofe di cui conosciamo il nome e alcuni cenni biografici, nonché moglie di Cratete, a sua volta discepolo di Diogene. Quest’ultimo è considerato il più cinico fra i cinici, il cane per antonomasia. Aristotele lo indica direttamente come “cane”, tacendone il nome: “Il cane diceva che le osterie sono le mense dell’Attica” (Retorica, III, 10, 1411 a 25).

Parresia

Diogene nacque, forse nel 413 a.C., a Sinope, nell’attuale Turchia; il padre Icesio fu accusato di aver falsificato la valuta e a causa di ciò tutta la famiglia fu esiliata. Secondo un’altra versione a battere moneta falsa fu lo stesso Diogene, che si trasferì quindi ad Atene e poi a Corinto dove, stando a quanto affermato da Demetrio di Magnesia negli Omonimi, si spense nel 323 a.C., lo stesso giorno in cui a Babilonia morì Alessandro Magno. Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto, in compenso su di lui abbondano racconti e testimonianze, anche se non di prima mano. Una volta giunto ad Atene prese a seguire Antistene, nonostante questo non volesse allievi. “Alle sue insistenze, Antistene lo minacciò con il bastone e addirittura lo colpì sulla testa. Diogene non accennò a desistere e anzi tornò alla carica con maggiore insistenza mostrando il più grande desiderio di ascoltare il maestro, al quale disse: “Colpiscimi pure, se vuoi, ecco la mia testa: non troverai un bastone abbastanza duro da farmi rinunciare ad ascoltarti”. A quel punto Antistene lo accolse di buon grado come allievo” (Claudio Eliano, Varia historia, X, 16). Come il suo maestro, condusse una vita priva di mete (indicate dalla società) e anche di dimora, tanto è vero che scelse di vivere in una botte. Il nostro filosofo era autarchico (bastava a se stesso in tutto) e apatico (indifferente a ogni cosa). Sua stella polare fu la parresia (libertà assoluta di parola) che esercitò in ogni circostanza. Lo stoico Dionisio racconta che dopo la battaglia di Cheronea (338 a.C.) Diogene fu catturato e condotto davanti a Filippo di Macedonia. “A Filippo, che gli chiese chi fosse, replicò: “Osservatore della tua insaziabile avidità”. Per questa battuta riscosse la sua ammirazione e fu rimesso in libertà” (DL, VI, 43).

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PIERRE PUGET, INCONTRO DI ALESSANDRO E DIOGENE, ALTORILIEVO, 1671/1689, MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI

Ancor più celebre è il presunto incontro con Alessandro Magno, l’uomo più potente del mondo allora conosciuto, di cui troviamo traccia in molti scrittori antichi e che nei secoli ha continuato a ispirare letterati e artisti (si veda, a solo titolo di esempio, l’altorilievo di Pierre Puget esposto al Louvre di Parigi). “Mentre Diogene prendeva il sole nel Craneo, gli disse, sopraggiunto, Alessandro: “Chiedimi ciò che vuoi”. E Diogene rispose: “Non farmi ombra”” (DL, VI, 38). Plutarco aggiunge, nella sua biografia di Alessandro Magno della serie Vite parallele, che il grande conquistatore, come già il padre Filippo, fu assai colpito dal coraggio e dalla sfrontatezza di Diogene, tanto da commentare: “In verità, se io non fossi Alessandro, sarei Diogene” (Plutarco, Vita di Alessandro, 14). Oggi, invece, ci ritroviamo i giornalisti, autodefinitisi cani da guardia (quale inconsapevole umorismo), che come un sol uomo si alzano in piedi per applaudire il potente di turno quando entra in sala stampa. Ma abbandoniamo le miserie del presente e torniamo al nostro filosofo.

Anaideia

Oltre alla parresia, Diogene praticava l’anaideia (totale libertà di azione). Filodemo di Gadara fornisce nella sua Rassegna dei filosofi conservata fra i papiri di Ercolano parzialmente scampati all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., un quadro dei comportamenti dei cinici a dir poco sconcertante, anche se per molti aspetti assai moderno: “Questi individui esecrabili ritengono di adeguarsi al modo di vivere dei cani, di fare ricorso apertamente a tutte le parole senza ritegno, di masturbarsi in pubblico, di indossare la doppia tunica, di abusare degli uomini di cui si sono invaghiti costringendo con la forza quelli che non sono disposti a cedere. (…) Presso di loro i figli appartengono a tutti (…) si accoppiano con le sorelle o la madre, con i familiari, i fratelli e i figli. (…) Le donne si vestono allo stesso modo degli uomini e svolgono le stesse attività senza distinguersi da nessun punto di vista”.

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JULES BASTIEN-LEPAGE, DIOGENE, OLIO SU TELA, 1877, MUSEO MARMOTTAN MONET, PARIGI

Sebbene la ricostruzione fornita da Filodemo appaia sopra le righe nelle sezioni in cui si fa riferimento alla violenza, del resto troviamo sostanziale conferma nel VI libro delle Vite: Diogene “ammetteva la comunanza delle donne e non riconosceva il matrimonio, ma la convivenza concordata tra uomo e donna. Perciò anche i figli dovevano essere comuni” (DL, VI, 72); “Era solito masturbarsi in luogo pubblico” (DL, VI, 69). Inoltre “non trovava affatto strano rubare qualcosa da un tempio o toccare la carne di qualsiasi animale, né riteneva un’empietà mangiare carne umana, come era chiaro che facevano alcuni popoli stranieri” (DL, VI, 73). Non è quindi un caso se nella Repubblica romana, caratterizzata da una spiccata severità morale, almeno nelle intenzioni della classe dirigente o di una sua parte, il cinismo ebbe un successo relativo. Continuò però a vivere nello stoicismo (che dai cinici ereditarono l’indifferenza nei confronti dei beni esteriori, del superfluo, e la contemporanea esaltazione dell’autarchia e dell’apatia) godendo poi di una riscoperta in epoca imperiale, quando nuovamente il cinismo, depurato dagli eccessi sopra descritti, funse da modello di vita per ampi settori della classe popolare. Lo stesso Seneca, filosofo stoico sempre pronto a illustrare e anche far proprie le dottrine di altre scuole, in Sui benefici non lesina lodi ad esponenti del cinismo, in particolare a Diogene e al proprio contemporaneo (I secolo d.C.) Demetrio.

Un Socrate impazzito

L’anaideia di Diogene si manifestava in diversi eccentrici modi. “Durante un convito alcuni gli gettarono le ossa come a un cane. Diogene andandosene ci orinò sopra, come un cane” (DL, VI, 46). “Un tale lo introdusse in una casa magnifica proibendogli sputare. Dopo che si fu schiarito la voce, Diogene gli sputò in faccia, dicendo che non aveva trovato luogo peggiore per farlo” (DL, VI, 32). “Una volta, a teatro, si mise a cercare di entrare dall’uscita, camminando in direzione opposta a chi veniva fuori, e quando gli fu chiesto il motivo disse: “È quel che cerco di fare da tutta la vita” (DL, VI, 64). Fra i suoi bersagli preferiti, come già fu per Antistene, c’era Platone, la cui teoria delle idee (l’esistenza di un modo soprasensibile “abitato” da forme immateriali ed eterne che fungono da modelli per tutte le cose sensibili) era respinta recisamente, né poteva essere altrimenti per una filosofia sostanzialmente materialistica come quella cinica, che dava credito solo a ciò che possiamo percepire con i sensi abituali. “Una volta che Platone disquisiva sulle idee ricorrendo ai termini “tavolità” e “coppità” (idea di tavolo e idea di coppa) invece di parlare di “tavola” e “coppa”, Diogene disse: “Quanto a me, Platone, la tavola e la coppa le vedo, la tavolità e la coppità no”. Al che Platone: “È logico: gli occhi per vedere la coppa e la tavola li hai, l’intelletto per vedere la tavolità e la coppità ti manca” (DL, VI, 53).

diogene platone germano morosillo cinismo
MATTIA PRETI, PLATONE E DIOGENE, OLIO SU TELA, 1649, MUSEI CAPITOLINI, ROMA

Da parte sua, a chi gli chiedeva cosa pensasse di Diogene, Platone rispondeva: “È un Socrate impazzito” (DL, VI, 54), alludendo al fatto che Diogene era dotato di una straordinaria capacità dialettica, che però rimaneva sterile, perché produttrice non di domande e dubbi, come in Socrate, ma di risposte fulminanti fini a se stesse, incapaci di avvicinare o di pungolare alla conoscenza. Epperò l’immagine di Diogene che se ne va in giro con una lanterna accesa in pieno giorno dicendo: “cerco un uomo” (ovvero l’uomo essenziale, libero da sovrastrutture e condizionamenti) cosa è se non stimolo all’indagine, filosofia in azione? In effetti l’impatto avuto dai “cani” sulla storia della pensiero antico fu tangibile, non solo sul già menzionato stoicismo, ma anche sulle altre grandi filosofie fiorite in epoca ellenistica, epicureismo e scetticismo.

La lezione del topo

Il “bastare a se stesso” di Diogene diventò un imperativo con il crollo delle poleis sancito dall’egemonia macedone: gli uomini perdevano la dimensione di cittadini per per trasformarsi in “semplici” individui. La vita diventa il problema e l’orizzonte del singolo. Le risposte del filosofo di Sinope arrivano non come riflessioni sul pensiero di uomini saggi, ma sulla scorta dei comportamenti di animali e dei bambini. Diogene “si era imbacuccato preparandosi a dormire in un angolo del mercato, profondamente scosso e turbato da cattivi pensieri, poiché senza che nessuno lo avesse costretto aveva intrapreso una vita difficile, di isolamento, mettendosi alle strette con le sue stesse mani poiché aveva rinunciato spontaneamente a ogni ricchezza. Fu in quel momento che, a quanto si dice, vide un topo arrampicarsi verso di lui e avventarsi sulle briciole cadute dalla sua pagnotta. Allora il suo spirito fu subito rinfrancato, e a mo’ di rimprovero rivolse a se stesso questa critica: “Che hai da dire, Diogene? Ecco che un topo si nutre con gioia dei tuoi avanzi, mentre tu, con la tua nobiltà di spirito, ti lamenti e rimpiangi di non poterti unire agli altri che si ubriacano sdraiati su morbidi tappeti”” (Plutarco, Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus, 77e-78a). “Una volta vide un bambino che beveva nel cavo della mano. Allora prese dalla bisaccia la sua tazza e la buttò via dicendo: “Un bambino mi ha battuto in semplicità”. Gettò via anche la scodella quando vide un altro bambino che, avendo rotto la sua, mangiava le lenticchie nel cavo di un pezzo di pane” (DL, VI, 37). La filosofia, in fondo, è una cosa semplice.


Bibliografia essenziale

BRACHT BRANHAM Robert, GOULET-CAZÉ Marie-Odelie, The cynics: the cynic movement in antiquity and its legacy, University of California Press, Berkeley 1996.

CICERONE, De officiis, a cura di Rosa Maria Marchese e Giusto Picone, Einaudi, Milano 2019.

Diogene di Sinope, filosofia del cane, a cura di Andrea L. Carbone, :duepunti edizioni, Palermo 2010.

DIOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2005.

DUDLEY Donald R., A History of Cynicism – From Diogenes to the 6th Century A.D., Methuen. London 1937.

NAVIA Luis E., Diogenes of Sinope, the man in the tub, Greenwood press, Westport 1998.

PLUTARCO, Tutti i Moralia, a cura di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, Bompiani, Milano 2017.

PLUTARCO, Vite parallele – Alessandro e Cesare, Rizzoli, Milano 1987.

SENECA, Sui benefici, Laterza, Milano 2019.

Socratis et socraticorum reliquiae, a cura di Gabriele Giannantoni, Bibliopolis, Napoli 1991.

Il De abstinentia di Porfirio: vegetarianismo e animalismo

Introduzione

Ogni anno gli uomini uccidono, per scopi alimentari, un numero smisurato di animali. Limitandoci a quattro categorie di creature terrestri (polli, maiali, mucche, pecore), come suddivise da Faunalytics su dati FAO, ed escludendo quelle acquatiche, il totale supera i 70 miliardi. Il modello carnivoro, fondato sull’allevamento intensivo, continua ad essere ampiamente dominante, nonostante presenti numerose e sempre più profonde criticità da un punto di vista ambientale e, a medio e lungo termine, economico. Tuttavia la questione di fondo, che precede ogni discussione sulla sostenibilità di tale modello, è di ordine morale: è giusto mangiare carne (e pesce)? È eticamente accettabile allevare gli animali tra inaudite sofferenze, in spazi angusti e sovraffollati, con mutilazioni inferte senza anestesia, in condizioni infime di salute psicologica e fisica (quest’ultima tenuta sotto controllo con ampio uso di antibiotici), per poi ucciderli dopo poche settimane o mesi di vita?

Sebbene la nostra alimentazione offra numerose e salutari alternative, il dilemma viene eluso o ignorandolo o argomentando che, dal momento che gli animali non sono uomini, è lecito disporne come meglio si crede. È quest’ultima, per limitarci all’Italia, la posizione assunta da buona parte della classe dirigente, tra dichiarazioni che esaltano gli allevamenti intensivi e la caccia e sanzioni mai troppo severe nei confronti di chi tortura gli animali per poi mettere in rete i video e guadagnarsi reazioni e commenti. Sarebbe forse il caso di dire basta.

Lo avevano già fatto alcuni celebri filosofi e scrittori antichi, e moltissimi altri rimasti nell’ombra, che dedicarono scritti e riflessioni al rispetto degli animali o lo mostrarono direttamente con l’esempio di vita. L’elenco dei pensatori vegetariani, principalmente afferenti alla linea di pensiero orfico-pitagorico-platonica, è assai nutrito. Comprende, tra gli altri, Pitagora, Empedocle, Teofrasto, Dicearco, Epicuro, Apollonio di Tiana, Ovidio, Plutarco, Plotino e Porfirio.

PORFIRIO

Porfirio

Porfirio nacque a Tiro, in Fenicia, nel 233, e, dopo essersi formato alla scuola ateniese di Cassio Longino, si trasferì a trent’anni a Roma. Lì divenne il principale discepolo di Plotino, nonché, alcuni decenni più tardi, l’editore dei suoi scritti, che riordinò e pubblicò in sei libri contenenti ciascuno nove trattati: le Enneadi, cui fece precedere la Vita di Plotino. Dotato di un ingegno filosofico di prim’ordine, ma anche di indole melanconica (le due caratteristiche sono spesso congiunte), fu soggetto a crisi depressive che lo portarono a meditare il suicidio, dal quale lo dissuase Plotino, spingendolo a trasferirsi in Sicilia dove recuperò l’equilibrio spirituale anche attraverso l’incessante attività di scrittura, che alla sua morte, avvenuta a Roma presumibilmente nel 305, contava circa 70 titoli. Per quanto sia ricordato soprattutto come allievo e biografo di Plotino, il nostro filosofo non fu un semplice compilatore delle idee del maestro, ma sviluppò un pensiero parzialmente originale, in particolare, ma non solo, tentando di conciliare platonismo, che rimane il sistema di riferimento, e aristotelismo. Plotino invece, che pure fece suoi alcuni strumenti concettuali dell’aristotelismo, mantenne una più chiara distinzione fra le due filosofie, assegnando il primato al “divino Platone”, nei cui dialoghi sarebbe possibile rintracciare ogni verità.

La fortuna e l’influenza di Porfirio furono tangibili almeno fino al Rinascimento: non solo per la celebre Isagoge (introduzione) alle Categorie di Aristotele, che per il tramite di Boezio diventò il termine di riferimento del dibattito logico lungo tutto il medioevo, ma anche, ad esempio, per la peculiare struttura triadica attribuita al divino, che presenta, in una certa misura, punti di contatto con la Trinità cristiana. Tuttavia in campo religioso e teologico la polemica del pagano Porfirio fu fiera, affidata in particolare ai 15 libri di Contro i cristiani, opera che sarà oggetto di molti tentativi di confutazione (in particolare da parte del vescovo di Cesarea, Eusebio) e che nel V secolo verrà messa al rogo. Ce ne rimangono solo frammenti e testimonianze, e può essere letta come una continuazione del Discorso vero di Celso, filosofo platonico del II secolo.

Il De abstinentia ab esu animalium

Al giorno d’oggi, complice la messa in crisi del paradigma antropocentrico e il progressivo emergere di una coscienza collettiva ambientalista e animalista, l’opera di Porfirio che meglio si presta ad essere utilizzata nel dibattito pubblico è però un’altra: il De abstinentia [ab esu] animalium (Sull’astinenza [dal cibarsi] di animali), manifesto ante-litteram del vegetarianismo. Per quanto meno noto rispetto ai trattati zoopsicologici di Plutarco (in particolare il suggestivo De esu carnium, che ha anche ispirato letterati e musicisti, da Shelley a Battiato), il discorso portato avanti nel De abstinentia porfiriano appare più completo ed esaustivo e arriva a determinare, con 1.700 anni di anticipo, uno degli argomenti principali dello scontro di idee tra i vegetariani, e più in generale i sostenitori dei diritti degli animali, e i loro oppositori. Ma andiamo con ordine.

Il volume ha un intento parenetico: esortare l’amico Castricio, detto Firmo, a ritornare alla dieta vegetariana, da poco abbandonata. Il De abstinentia, articolato in quattro libri, segue lo schema inaugurato da Platone nel Sofista, e successivamente replicato da Aristotele in diversi trattati, che prevede l’esposizione degli endoxa, ovvero le opinioni di alcuni autorevoli filosofi del passato, cui fa seguire, o con le quali integra, le proprie personali considerazioni.

L’ostacolo del piacere

Preliminarmente Porfirio osserva che “la dieta senza carne contribuisce non solo alla buona salute, ma anche alla conveniente resistenza alle fatiche della filosofia” (I, 2, 1). È dunque agli amanti della sapienza che è indirizzato il suo discorso: “La mia parola non darà consiglio ad ogni vita umana (…) ma all’uomo che ha riflettuto su chi egli sia e donde sia venuto, e dove debba affrettarsi” (I, 27, 1). L’anima, nella tradizione platonica, è incarcerata nel corpo; sicché vanno limitati tutti gli elementi che la legano ad esso e intralciano la contemplazione del divino (che è in noi e fuori da noi). Uno dei maggiori ostacoli al distacco dalle passioni e alla contemplazione è il piacere, motivo per cui è preferibile condurre una vita sobria e morigerata, che fra le altre cose prevede di cibarsi dell’essenziale: “Dai mali ci libera l’alimentazione senza carni di animali, semplice e accessibile a tutti, procurando pace al ragionamento che ci fornisce i mezzi di salvezza” (I, 47, 2).

Sacrifici animali e vegetali

A partire dal secondo libro l’argomentazione sale, per così dire, di livello. Il significato profondo della dieta vegetariana non sta solo nel nostro interesse, ovvero la tutela della nostra salute, fisica e psichica, ma anche nel rispetto della vita degli animali, che in quanto tale possiede una dignità intrinseca. Porfirio si concentra sul tema del sacrificio. Un’obiezione che veniva opposta alle istanze animaliste dei filosofi vegetariani era la seguente: gli dei apprezzano i sacrifici animali, conseguentemente ucciderli è lecito. Porfirio rileva che “la divinità guarda al carattere di sacrifica” (II, 15, 3) e non al tipo o alla quantità di cibo sacrificato. Osserva anzi che, al di là del sacrificio esteriore, il modo migliore per onorare il dio è “un silenzio puro con pensieri puri a lui rivolti” (II, 34, 2).

Il nostro filosofo ricostruisce la storia del sacrificio che, a suo dire, sarebbe iniziata con l’offerta di semplici ciuffi d’erba, foglie, frutta, cereali, focacce, olio, fiori. L’utilizzo di animali sarebbe una degenerazione di quella ritualità. A chi afferma che il dio ci ha dato gli animali per il nostro uso (ivi incluso il sacrificio), si risponderà: “Quando sono sacrificati gli animali, egli arreca loro qualche danno, dato che sono privati dell’anima. Quindi non vanno sacrificati” (II, 12, 3). La sacerdotessa di Delfi, richiesta di un responso da un cittadino di Magnesia che era solito sacrificare un gran numero di animali, comunicò che meglio di tutti onorava gli dei Cleante di Methidrio: non uccidendo buoi né facendo a pezzi vittime, ma lucidando e decorando statue e immagini sacre e offrendo incenso e farina.

SACRIFICIO DI UN MAIALE NELL’ANTICA GRECIA. CERAMICA A FIGURE ROSSSE, 500 A.C. CA., MUSEO DEL LOUVRE

Porfirio, replicando l’argomentazione di Teofrasto, risponde inoltre a chi obietta che anche le piante vanno rispettate, assumendo la più radicale delle posizioni vegetariane, quella del fruttarismo: “Esse fanno cadere i loro frutti, e la raccolta di frutti non è accompagnata dalla loro distruzione, come avviene quando gli animali perdono la loro anima” (II, 13, 1). Per la stessa ragione nel libro III ricorderà che ci si può nutrire anche raccogliendo i grani dei cereali e dei legumi quando sono secchi e cadono a terra e muoiono. In ogni caso, “fra tutti il più grande e il primo è l’aiuto che ci viene dai frutti e di essi soltanto si deve far offerta agli dèi e alla terra che li produce. Questa è, infatti, il focolare comune degli dèi e degli uomini e tutti chini su di essa, in quanto nostra nutrice e madre nostra, dobbiamo celebrarla con inni e amarla teneramente perché ci ha generati” (II, 32, 1). Siamo così approdati da una prospettiva animalista ad una più ampia visione di stampo proto-ecologista.

Gli animali sentono e pensano

Il terzo libro è il più importante dell’opera. Tocca tanto le corde della razionalità quanto quelle dell’emotività. Al centro stavolta non ci sono gli uomini o gli dei, ma gli stessi animali e il loro diritto alla vita al benessere.

I sostenitori della dieta carnivora/onnivora affermano che la giustizia debba esercitarsi solo tra gli uomini e non vada estesa agli animali, che sono privi di ragione. Porfirio replica sulla scia di Pitagora che “è razionale ogni anima la quale ha a che vedere con la sensazione e la memoria” (III, 1, 4), di conseguenza la giustizia va estesa a ogni animale. In polemica con gli Stoici, Porfirio osserva che non solo gli animali sono ragionevoli, ma sono anche in grado di pronunciare “discorsi” utilizzando i linguaggi a loro propri. E, oltre a comunicare tra loro, talvolta sono anche in grado di farsi capire dagli uomini e di comprendere quanto questi dicono. Nei capitoli VII e VIII il discorso si estende alle passioni e alle sensazioni che gli animali condividono con gli uomini. In certi ambiti gli animali mostrano anzi una superiorità, come ad esempio nella capacità di avvertire immediatamente le condizioni dell’aria e i cambiamenti del tempo. (Pensiamo, a tale proposito, ai casi di animali che mostrano comportamenti “strani”, prima di eventi quali terremoti o alluvioni).

Dunque, perché ci si ostina ad uccidere gli animali? “Se per vivere ci trovassimo ad aver bisogno dell’uccisione degli animali e di mangiarne la carne, così come abbiamo bisogno dell’aria, dell’acqua, delle piante e dei frutti, senza i quali è impossibile vivere, la nostra natura si troverebbe necessariamente coinvolta in questa ingiustizia” (III, 18, 4). Ma non è questo il caso dell’uomo che, a differenza di una tigre o di un leone, non è naturalmente costretto a nutrirsi di altri animali. Facendo proprie le affermazioni di Plutarco, Porfirio rileva che “è azione mostruosamente innaturale e orribile condurre gli animali all’uccisione e farli cuocere, insozzandoci di assassinio non allo scopo di nutrirsene o soddisfare la fame, ma per fare del proprio piacere e della propria ghiottoneria lo scopo della nostra vita” (III, 18, 5). Tutte affermazioni in perfetta continuità con la linea di pensiero di Pitagora e Platone, nella quale tutti i viventi sono legati da una parentela universale e, successivamente alla morte, le anime degli uomini possono incarnarsi in corpi animali e viceversa.

La sovrapposizione delle specie

Arriviamo così al punto centrale dell’opera, che è oggi (e lo è stato negli ultimi 50 anni) il vero terreno di scontro tra i propugnatori dell’uguaglianza fra le specie e chi sottolinea l’eccezionalità della specie umana. Se concedessimo, come affermano questi ultimi, che gli animali non hanno ragione, e per questo risultano estranei al perimetro della giustizia, per lo stesso motivo dovremmo disporre come meglio crediamo, anche vivisezionandoli, uccidendoli e mangiandoli, degli esseri umani incapaci di ragionare.

È il cosiddetto argomento dei casi marginali (o della sovrapposizione delle specie), portato avanti come vessillo della causa antispecista già dagli anni ‘70 del XX secolo da Singer, Regan, Linzey, Jamieson e dai loro epigoni, ma, come osservato da Dombrowski, esposto per la prima volta da Porfirio nel III secolo. Recita infatti il capitolo 19 del De abstinentia: “Ma quando vediamo molti uomini vivere guidati soltanto dal senso, senza far uso dell’intelletto e della ragione e, inoltre, molti superare le bestie più terribili in crudeltà, in collera, in avidità (…) come non è assurdo pensare che abbiamo rapporti di giustizia con essi, mentre non ne abbiamo nessuno con il bue (…), il cane (…), le pecore? Come non è tutto ciò estraneo alla ragione?” (III, 19, 3).

CACCIA AL CERVO, MOSAICO IV SECOLO A.C., MUSEO ARCHEOLOGICO DI PELLA

In altre parole, se solo gli esseri umani meritano uno status morale pieno ed uguale, allora deve esserci una proprietà, una caratteristica, che è presente in tutti gli esseri umani e solo negli esseri umani e in nessun altro animale. Ma, evidentemente, tale proprietà non c’è. Poniamo che tale proprietà sia la ragione (oppure la capacità di sentire dolore): ci sono alcuni umani (i cosiddetti casi marginali) che non la posseggono, ma è presente in alcuni o molti animali (gli animali soffrono, gli animali hanno processi mentali). La logica ci porterebbe allora a concludere che un caso marginale-uomo ha meno diritto di vivere di una scimmia o un delfino. Insomma, non c’è modo di difendere l’affermazione secondo cui tutti e solo gli esseri umani meritano uno status morale pieno. Ci sono esseri umani che non fanno uso della ragione o lo fanno in maniera non determinabile o rudimentale, talvolta ad un livello inferiore a quello di altri mammiferi? Certamente, pensiamo ai neonati, a persone con ritardi mentali congeniti o acquisiti, a pazienti in stato di coma. Applicando come criterio distintivo l’esercizio della ragione, tali soggetti potrebbero essere soppressi. E, in effetti, questo già avviene in quei casi in cui, nonostante le proteste dei familiari, ospedali e tribunali terminano le vite di esseri umani ritenendole “non degne di essere vissute”. Se invece poniamo la sensibilità al dolore come criterio sufficiente a possedere uno status morale pieno, allora è evidente che animali (indipendentemente dalla loro razionalità) e umani si trovano sullo stesso piano. Anche questa strada, però, non è esente da ostacoli: ad esempio, un uomo che non ha capacità di “sentire”, o la cui sensibilità è molto attenuata o non determinabile, sarebbe per questo sacrificabile? Di nuovo, molti medici e giudici risponderebbero di sì. Ma di questo tratteremo in altra occasione.

Gli uomini santi

Quel che è certo è che, secondo Porfirio, non ci è lecito fare uso degli animali secondo il nostro capriccio, dal momento che essi sono in possesso di un loro valore inerente. Regan distinguerà tra agenti morali (gli uomini “normali”) e pazienti morali (i casi marginali umani appena descritti e gli animali). Sia gli agenti sia i pazienti sono soggetti di vita: ma è nella responsabilità, e appunto nella moralità, degli agenti, rendere queste vite migliori o peggiori. Il punto è che tale responsabilità non viene attuata. Basti pensare al caso delle sperimentazioni nel settore della cosmesi (prodotti finiti o ingredienti), dove il diritto fondamentale dell’animale, vivere, è subordinato a un interesse marginale di una donna o un uomo, quello estetico. Oppure ai circhi, dove il diritto degli animali a un’esistenza libera cede il passo al dritto degli umani di divertirsi vedendoli in una gabbia frustati da un domatore. O alle pellicce, dove il diritto alla vanità di una donna prevale su quello alla vita dei visoni.

Ma torniamo al testo di Porfirio, che riprende ora di mira quanti affermano che gli animali sono stati creati per servire ai nostri scopi: “Se definissimo sulla base dell’utile ciò che è creato per il nostro bene, dovremmo subito ammettere che noi stessi siamo stati creati nell’interesse degli animali più funesti, come i coccodrilli” (III, 20, 6). Di seguito viene ribadito che gli animali, oltre a sentire, gioire e soffrire, pensano: “Non diciamo dunque (…) che le bestie, anche se la loro intelligenza è meno acuta e il loro intelletto è inferiore al nostro, sono prive di intelletto e di intelligenza, né che non posseggono la ragione, ma diciamo che ne posseggono una debole e torbida, come un occhio debole e annebbiato” (III, 23, 8). La specie uomo e le altre specie animali non differiscono per l’essenza, ma per l’esattezza della ragione. Il discrimine non sarebbe qualitativo ma quantitativo: un più o un meno di ragione.

L’ultima sezione del De abstinentia è un viaggio negli usi e nei costumi di diversi popoli e tribù, orientali e occidentali, dagli Egiziani, agli Esseni, ai Persiani, ai Cretesi, che mostra come gli uomini santi di ogni luogo ed epoca si astengono dal mangiare altri corpi. Sta a noi seguire il loro esempio per evitare che l’anima sia contaminata e trascinata “verso ciò che è estraneo alla sua natura” (IV, 20, 11).


Bibliografia essenziale:

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GIRGENTI Giuseppe, Porfirio e il vegetarianesimo antico, in “Bollettino Filosofico: Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, 17, 2001, pp. 75-84.

JAMIESON Dale, Rational egosim and animal rights, in “Environmental ethics” 3, 1981, pp. 167-171.

LINZEY Andrew, Animal rights: a christian assessment of man’s treatment of animals, SCM Press, Londra 1976.

PLUTARCO, Del Mangiare carne. Trattati sugli animali, Adelphi, Roma 2001.

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PORFIRIO, Porphyrii philosophi Platonici Opuscula selecta, a cura di Augustus Nauck, Teubner, Lipsia 1886, pp. 82-270.

PORFIRIO, Vita di Plotino in Enneadi, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992.

REGAN Tom, The case for animal rights, Univerisity of California Press, Berkeley 1983.

SINGER Peter, Liberazione animale, Il Saggiatore, Milano 2009 (ed. or. New York 1975).

TEOFRASTO, Della pietà, a cura di Gino Ditadi, Isonomia, Padova, 2001.

Il Bello di Plotino nella storia dell’arte occidentale

In Plotino l’immagine realizzata dall’artista non è una semplice riproduzione del mondo fisico, e neanche una mera copia dell’archetipo, peraltro impossibile a realizzarsi compiutamente stante l’intralcio della materia: è piuttosto un’apertura al modello originario, un “promemoria” della Forma alla quale partecipa e che è in essa presente. L’opera d’arte è la manifestazione dell’Idea invisibile che rimane nel Nous e nella mente dello stesso artista: “si tratta qui dell’incarnazione di un’idea, non dell’idealizzazione di una realtà” (1).

Poiché l’armonia e la misura che caratterizzano la vita del Nous non sono le stesse che regolano i rapporti interni agli oggetti materiali e le loro relazioni con gli altri oggetti e lo spazio circostante, è evidente che l’opera d’arte quale è concepita da Plotino si configura come espressione “libera” rispetto ai canoni vigenti in epoca classica e ancora in età imperiale. La ὀρθότης che Plotino richiede all’artista risiede quindi nella capacità della sua opera di essere uno stimolo a ricordare e un simbolo adeguato a ciò che rappresenta. L’artista si trova allora nella scomoda condizione di dover rappresentare sensibilmente, attraverso creazioni percepibili dalla vista o dall’udito, ciò che è di per sé non udibile e non visibile.

Secondo W. Beierwaltes nella produzione di alcuni dei maggiori rappresentanti dell’arte moderna, ad esempio Malevich, Mondrian, Kandinsky, Klee e Beckman, sono rinvenibili, secondo un’intensità variabile, connessioni oggettive con la teoria neoplatonica del bello e dell’arte: “in contrapposizione ad una mimesi puramente esteriore della natura, troviamo qui un tentativo di penetrazione nella struttura più intima della realtà, alla quale la forma sensibile dell’opera d’arte dischiude l’accesso immediato e ciò facendo ne legittima la natura peculiare. In un atto creativo di potenza immaginativa, quella dimensione della natura che è invisibile ai nostri occhi e che forma per così dire l’altra “faccia” (anche se a tutti i diritti costitutiva) della realtà, viene trasposta in un’immagine autonoma e non più rappresentativa” (2). Plotino sarebbe anticipatore della modernità non in quanto mette in primo piano la soggettività dell’artista, ma per aver posto a fondamento della sua creazione il riferimento a un’oggettività invisibile (3). Il risultato è una rappresentazione che alla vista sensibile non è rappresentativa, in quanto imitatrice di un modello accessibile solo alla mente.

Plotino sarebbe stato l’iniziatore di un approccio operativo che trova nell’αἰών la propria dimensione e non è in alcun modo comprimibile in un evento storico, quale la produzione del primo acquarello astratto da parte di Kandinsky che nel 1910 inaugurò appunto il movimento astratto. 

WASSILY KANDINSKIJ, PRIMO ACQUERELLO ASTRATTO, 1910, PARIGI, CENTRO POMPIDOU.

“Quella dell’astrazione non va intesa – come vorrebbero molte delle più significative riletture delle vicende artistiche occidentali – come un’espressione della modernità” (4); il concetto di astrazione indica infatti un approccio operativo che trascende le consuete coordinate spazio-temporali: assumendo questo punto di vista  non sorprende il giudizio di W. Worringer, secondo il quale l’arte dell’Egitto ha incarnato in sé il principio dell’astrazione più che quella di tutti gli altri popoli (5).

Probabilmente le parole di Worringer sarebbero state  ascoltate con interesse da Plotino, che in V 8 Sul bello intelligibile si sofferma sulla peculiare capacità degli artisti egiziani di trasmettere conoscenza. Nel rilevare che l’attività dell’artista consiste nel risalire a una sapienza che non è più composta da teoremi, ma è un tutto unitario, Plotino riconduce le opere d’arte e di natura all’Intelletto, il quale non deve risalire oltre, perché trae la sapienza da se stesso. “Così la vera sapienza è essere e il vero essere è sapienza” (6). Nel contempo viene ribadito che l’identificazione tra creazione e contemplazione, rivendicata per la natura (7), deve valere anche per l’arte: “Ma se qualcuno creasse secondo la sapienza stessa, tali saranno le arti (8)”.

L’assenza di ragionamento discorsivo proprio del κόσμος νοητός (9), il cui vedere è un pensiero intuitivo concentrato in sé, è assai difficile da riproporre nel mondo fisico: pur rimanendo estranei alla teoria plotiniana dell’arte, gli egiziani riescono comunque a ridurre molteplicità e dispersione, disegnando per ogni cosa una figura particolare. I geroglifici sono quindi sapienza concentrata in unità, in quanto ogni figura è “una forma di scienza e sapienza ed insieme il loro soggetto” (10). L’immagine, che nelle Enneadi costituisce la struttura di tutta la realtà (sulla scia della protoimmagine Uno), nella pittura egiziana supera la frammentazione del linguaggio, racchiude la totalità di un significato e riesce a riprodurre l’unità di essere e pensiero propria del Nous, ovvero raffigura una cosa ed è quella cosa. È come se l’essere stesso si esprimesse nell’immagine (11). In IV 3 Problemi sull’anima I Plotino affronta lo stesso tema in riferimento all’architettura e alla statuaria religiosa: questi manufatti realizzati dagli antichi saggi hanno la capacità di attrarre e trattenere l’anima dell’universo, in quanto costruiti in accordo alle forme razionali che l’artista, come anche la natura, possedeva.

Già Platone nel Fedro (12) aveva sottoposto il discorso scritto, non in grado di rendere conto delle cose e persino incapace di difendere se stesso, a critica. Plotino, però, va decisamente oltre Platone, non facendo distinzione tra la debolezza del discorso scritto e quello orale. A essere sottolineato è piuttosto l’abisso che separa il pensiero razionale, e il discorso che lo esprime, dalla sapienza e la relativa immagine. A tale proposito va sempre tenuto presente che la stessa dialettica assume un significato nuovo in Plotino. La forma di pensiero propria del Nous è “intuizione subitanea di cose intuite tutte insieme” (13). Questo esclude che si possa mediare il passaggio da un contenuto all’altro, come invece sembra indicare la ricognizione nell’ Iperuranio dello Straniero (14). Nel Nous esiste certo una differenziazione fra le Idee – tanto l’Unità  quanto la Molteplicità sono condizione generale del pensiero – ma le stesse riflettono, ciascuna e tutte insieme, sé stesse, ogni altra idea, il Nous tutto.

Le informazioni più interessanti rispetto al programma plotiniano per una adeguata rappresentazione dell’intelligibile nelle arti sono relative alla pittura. Una prima notizia la troviamo nel brevissimo trattato II 8 La visione, ovvero perché gli oggetti lontani sembrano piccoli. Plotino osserva: “bisogna che l’oggetto stesso sia presente e vicino all’occhio per esser conosciuto nella sua grandezza” (15). È evidente che, se l’oggetto non fosse vicino, non coglieremmo a maggior ragione i suoi dettagli e neanche il colore, che la distanza tenderebbe a sbiadire.

Secondo A. Grabar (16) è proprio da queste riflessioni che prenderebbe il via, nella tarda antichità, il passaggio dalla tradizione classica all’estetica medievale. Quest’ultima rinunciando alla profondità, colloca in primo piano tutte le figure rappresentate sottolineando di ciascuna i più minuti dettagli. Alla base della scelta di una pittura che abdica a ogni pretesa di tridimensionalità c’è l’identificazione della materia con la profondità e l’oscurità, e della luce con la forma (17).

MELCHISEDEC, ABELE E ABRAMO COMPIONO SACRIFICI, VII SECOLO, MOSAICO, RAVENNA, SANT’APOLLINARE IN CLASSE.

Lo scarto che si viene a creare tra natura e immagine corrisponde a quello tra vista sensibile e intelligibile: lo spettatore viene messo nella condizione di godere dell’opera nella sua interezza e nei suoi dettagli, e di esserne egli stesso assorbito, ovvero raggiungere l’identità di contemplante e contemplato. Contribuisce a questo effetto anche l’utilizzo della “prospettiva rovesciata (l’oggetto o gli oggetti rappresentati aumentano di dimensione in proporzione alla loro distanza dallo spettatore) e della prospettiva radiante (gli oggetti raffigurati si dispiegano in tutte le direzioni partendo da un punto centrale)” (18) : l’aspetto normale delle cose può essere ristabilito solo immaginando il fruitore dell’opera posizionato al centro del dipinto o bassorilievo.

La trasposizione della struttura del Nous sul piano fisico non è ovviamente scevra di inconvenienti, primo fra tutti l’impossibilità di rendere la luminosità e l’assoluta trasparenza degli oggetti gli uni agli altri, come invece avviene nel rapporto fra le ἰδέαι descritto in V 8 (“Tutto infatti è trasparente (διαφανή), nulla è oscuro né resistente, ognuno è manifesto (φανερὸς) all’altro fin nell’intimo e tali sono tutte le cose”) (19). Tuttavia anche questo tentativo viene esperito: attraverso la rappresentazione di corpi sospesi a mezz’aria, con la stessa pienezza di luce, in primo piano o anche parzialmente sovrapposti, talvolta trasparenti e circondati da aloni luminosi, mentre le forme della natura diventano schematiche e geometriche. Alla desensibilizzazione dei personaggi raffigurati e dell’ambiente che li circonda, e quindi al venir meno delle consuete categorie spaziali e cromatiche, lo spettatore potrà rispondere con la ψυχῆς  ὂψις (20), che è l’unica a poter penetrare, in quanto penetrata, il mistero di tali opere.

Questo tipo di pittura, e di bassorilievo, fiorì in Occidente a partire dal III secolo d. C., per affermarsi definitivamente in quelli successivi e raggiungere il Medioevo: potremmo allora inferire una discendenza dalla teoria dell’arte di Plotino, sennonché va considerato che lo stesso stile si riscontra già all’inizio dell’età imperiale nei rilievi e negli affreschi di Dura Europos e Palmira, oltre che nei dipinti funerari egiziani. A Plotino andrebbe attribuito il merito di aver teorizzato e divulgato filosoficamente un approccio all’arte di matrice religiosa e misterica fino ad allora circoscritto ad una determinata area geografica. È da rilevare che fra le opere che rispondono, almeno parzialmente, al “programma artistico” di Plotino, troviamo anche il sarcofago di Villa Torlonia del 265-270 a. C.: conservato al Museo del Laterano, secondo l’interpretazione di G. Rodenwaldt raffigura proprio il nostro filosofo, con accanto Porfirio e, forse, l’imperatrice Salonina (21).

UN FILOSOFO TRA DUE PERSONIFICAZIONI ALLEGORICHE E TRE DISCEPOLI, FRONTE DI UN SARCOFAGO PAGANO PROVENIENTE DA VILLA TORLONIA, 270 CIRCA, ROMA, MUSEO DEL LATERANO.

La suggestiva ricostruzione di Grabar sfocia, come sovente accade per Plotino, in un paradosso: a sviluppare un’arte vicina alle sue posizioni non furono i pagani, seppure al tempo di Plotino e anche dopo opere d’arte analoghe potevano scaturire dai loro ambienti, ma proprio quei cristiani (22) da lui avversati e probabilmente destinatari di alcune delle critiche contenute in II 9 Contro gli gnostici e attaccati con durezza in III 6 L’impassibilità degli esseri incorporei per la loro concezione del corpo e del suo rapporto con l’anima (23).

Di sicuro le riflessioni estetiche di Plotino non ebbero grande influenza a Roma. Questo a prima vista può apparire sorprendente, dal momento che “l’imperatore Gallieno e sua moglie Salonina onoravano e stimavano grandemente Plotino” (24), tanto da voler acconsentire alla costruzione, in Campania, di una città i cui abitanti avrebbero ubbidito alle leggi di Platone. Sebbene tale progettò non andò in porto per l’intromissione di alcuni collaboratori dell’imperatore, la notizia palesa l’enorme credito di cui godeva a Roma il nostro filosofo, al quale addirittura “molti uomini e donne delle migliori famiglie portavano, prima di morire, i loro figlioli, maschi o femmine, e glieli affidavano con tutte le loro sostanze come a un sacro divino custode” (25). In realtà Plotino non ebbe mai l’ambizione di influenzare la politica, fosse anche solo culturale, dell’imperatore. La stessa vagheggiata Platonopoli va vista più come un buen retiro per filosofi che un esperimento politico eventualmente da riprodurre su larga scala.

Agli uomini del suo tempo Plotino non chiedeva la realizzazione di opere esteriori, ma di diventare artisti di se stessi, di scolpire la propria statua interiore (26). A utilizzare l’arte come strumento di battaglia politica e religiosa, ossia a difesa della tradizione contro la novità cristiana, furono invece i neoplatonici del IV secolo, i quali incoraggiarono l’arte classica. Testimonianze in tal senso sono rappresentate dalle opere commissionati da Simmaci e Nicomaci, due potenti famiglie aristocratiche del tempo influenzate dai loro consiglieri neoplatonici. A. Aföldi (27) sottolinea in tali opere, ad esempio una valva del dittico dei Simmaci e dei Nicomaci della fine del IV secolo, citata da Grabar ed esposta al Victoria and Albert Musesum di Londra, il richiamo a quello stile classico che caratterizzava i monumenti dei primi due secoli di Impero.

La scelta dei neoplatonici fu quindi più strumentale che teoretica, fermo restando che lo stesso Plotino, pur stimolando la nascita di un’arte cristiana fondata su caratteri diversi da quelli tradizionali, non prese in alcun modo le distanze dall’arte classica. Prova ne è che l’opera perfetta citata nelle Enneadi è lo Zeus di Fidia. Da parte cristiana, invece, il lascito plotiniano costituì la giustificazione teorica alla loro arte spiritualistica. “L’arte che corrisponde alla teoria di Plotino, un’arte che è la negazione di quella classica puramente rappresentativa, svolse per secoli in Europa un ruolo di primo piano. L’arte bizantina, in particolare, realizzò il programma di Plotino, ma anche quella occidentale si sviluppò su basi analoghe” (28).

Va comunque sottolineato che, al netto degli aspetti tecnici, la concezione plotiniana di arte, come quella del Medioevo, non segna un reale punto di rottura con il passato. Il legame tra bellezza e utilità dell’opera rimane ben saldo: il καλός è ancora εὐπρεπής, nella misura in cui è utile a destarci e condurci al Nous. Da questo punto di vista nessun passo avanti viene fatto dal IV secolo a. C. di Platone al XIII d. C. Quando Dante afferma che la realizzazione della Divina Commedia fu intrapresa per un fine pratico, ovvero “rimuovere coloro che vivono questa vita dallo stato di miseria e guidarli allo stato di beatitudine” (29), coglie l’aspetto anagogico della riflessione plotiniana sull’arte. Dio, o il Nous per il tramite della psyché, è l’artista che dispensa le forme intelligibili e produce il mondo come immagine: agli uomini è dato di contemplare le forme e contemplando di produrre, e questa produzione genera in chi osserva o ascolta, una volta riconosciuta la traccia del bello, il desiderio di risalire alla sua fonte. Riconoscere il bello vuol dire svegliarsi. Ma non basta credere alle cose belle: se non si crede alla bellezza in sé (30), si è comunque nel sonno. Solo chi “riconosce l’esistenza del bello in sé e sa vederlo nella sua assolutezza e nelle realtà a cui partecipa, e non lo confonde con queste ultime, né viceversa scambia queste col bello in sé” è desto.

Il tentativo di riprodurre l’intelligibile nel sensibile, e quindi di rappresentare visivamente gli attributi divini, opera nel Medioevo anche secondo tecniche che non vengono descritte nelle Enneadi, ma ad esse ispirate. Nicola Cusano, che della tradizione platonica fa parte a pieno titolo, ricorda nel primo capitolo del De Visione Dei (scritto su richiesta dei monaci dell’abbazia di Tegernsee, che desideravano chiarimenti sulla coincidenza degli opposti esposta nel De Docta Ignorantia) le icone onniveggenti. Si tratta di immagini, che caratterizzano la ritrattistica dell’intera epoca medievale, nelle quali il volto della divinità dà l’impressione di fissare lo sguardo dello spettatore, qualunque sia il punto di osservazione di quest’ultimo (31). Cusano, nel commentare l’invio di un tale dipinto ai monaci, descrive l’effetto nel dettaglio: allo spettatore che resta fermo sembrerà che il dipinto lo scruti; allo spettatore che si muove sembrerà che lo sguardo del Cristo si muova insieme a lui. Insomma, qualsiasi sia la modalità di osservazione, a ciascuno sembrerà di essere soltanto lui ad essere osservato. La ὀρθότης e ἰσότης della copia al modello presente nella mente dell’artista cristiano sono così conseguite: non solo viene manifestato l’attributo dell’onniveggenza di Dio, ma anche la sua capacità di stabilire un rapporto personale con ogni singolo fedele.

CRISTO PANTOCRATORE, ICONA A ENCAUSTO, VI SECOLO, MONASTERO DI SANTA CATERINA, EGITTO.

La ἀλήθεια dell’immagine è conseguenza diretta della intenzione e della scienza dell’artefice: l’effetto prodotto dalla tela realizzata da un pittore ateo, che non crede in Dio né ha visto la sua potenza, non sarà lo stesso. Proprio come per il sofista che pretende di formulare una corretta connessione fra i termini del discorso non avendo contemplato i γένη e la loro συμπλοκή, così l’artista lontano da Dio produrrà solo una cattiva imitazione, un εἴδωλον che anziché avvicinare allontana dal vero.

Nelle Enneadi sarebbero poi riscontrabili intuizioni che l’architettura organica avrebbe sviluppato diciassette secoli più tardi (32). Il testo di riferimento è II 4 La materia, nel quale Plotino opera la distinzione tra materia intelligibile e sensibile. Nel capitolo 5 è descritto come per la potenza dell’Uno viene a generarsi qualcosa di informe, che si fa Nous rivolgendosi all’Uno, contemplandolo e contemplando se stesso fecondato dall’Uno. Come le Idee, la materia intellegibile è eterna, ovvero generata dal Principio e ingenerata perché non ha inizio nel tempo (33). Ed è un essere; “infatti prima di lei c’è ciò che è al di là dell’essere” (34).

A differenza della materia intelligibile, che rimane sempre identica a sé possedendo già tutte le forme, la materia degli esseri generati (τῶν γιγνομένων ὔλη), identica alla privazione, non può realmente diventare formata. Nella materia sensibile “ci sono tutte le forme una dopo l’altra, e una sola in ogni istante. Nulla in essa sussiste, perché l’una scaccia l’altra” (35) e “mentre è in relazione con una cosa, è già in potenza quella che viene dopo” (36). La materia sensibile è mera possibilità di riflettere la forma senza esserne veramente informata, capacità di contenere le forme in successione e incapacità di stabilire con ciascuna di esse un legame permanente. In altre parole, “la potenzialità che Plotino ascrive alla materia, diversamente da quanto accade in Aristotele e in Alessandro, non è suscettibile di essere attualizzata” (37).

La legge del mutamento organico, sviluppata spazialmente da F. L. Wright, costituirebbe l’esplicazione architettonica di questo principio. All’armonia del mondo quale è descritto da Plotino, caratterizzata dal suo essere armonia di parti anche singolarmente belle, ma che acquistano un senso ultimo solo in rapporto all’intero, corrisponderebbe la struttura dell’edificio organico nel quale nulla è completo in se stesso e ogni parte si fonde nella più ampia espressione del tutto. Allo stesso modo, come nel mondo, per l’intralcio della materia, l’armonia risulta in movimento e mai definitiva, sebbene sempre presente, “la meta finale dell’architettura organica non si raggiunge mai. Né deve esserlo. Quale ideale che valga la pena di essere perseguito è mai raggiunto?” (38). Nulla può essere affermato, espresso o costruito come qualcosa di definitivo, a meno di non sollevarci alla dimensione dell’eterno. Fino ad allora dovremo accontentarci della sua nostalgia, ovvero un tendere a, il desiderio di “possedere [il Bene] per sempre” (39).


  1. Abbiamo riportato questo giudizio di S. A. Luciani sull’arte medievale, pubblicato in Dolce stil novo, “Tribuna”, 22 febbraio 1928, e citato da L. Valli ne Il linguaggio segreto di Dante e dei “fedeli d’Amore”, vol. II, Discussioni e note aggiuntive, Optima, Roma 1930, sia perché pertinente all’estetica plotiniana, sia per l’influenza della filosofia di Plotino sull’arte della Tarda Antichità e dello stesso Medioevo cristiano.
  2. W. Beierwaltes, Unità e identità come cammino del pensiero in Virgilio Melchiorre (a cura di), L’Uno e i molti, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 43-44.
  3. L’interiorizzazione metafisica della forma operata nelle Enneadi troverebbe riscontro, ad esempio, in alcuni ritratti di imperatori realizzati in epoca plotiniana. Ne tratta D. Rößler, Die romische Portraitkunst im 3. Viertel des 3. Jahrhunderts u. Z. und die Philosophie Plotins, Zur Krise von Kunst und Ideologie am Beginn der Spätantike in “Wissenschaftliche Zeitschrift Der Humboldt-Universität zu Berlin, Gesellschafts und Sprachwiss Reihe” 25, 1976, pp. 499-507, il quale individua nella tendenza a spiritualizzare l’apparenza fisica un’anticipazione dell’arte contemporanea.
  4. Massimo Donà, Teomorfica: Sistema di estetica, Bompiani, Milano 2015, III, 4.
  5. W. Worringer, Astrazione e empatia, Einaudi, Torino 1975 (ed. or. Abstraktion und Einfühlung: ein Beitrag zur Stilpsychologie. Dissertation, Heuser’sche Verlagsdruckerei, Neuwied 1907).
  6. V 8, 5, 15-16.
  7. III 8, 3-4.
  8. V 8, 5, 3.
  9. Questa  definizione del piano intelligibile è già presente in Filone, De Opificio Mundi, 16, il quale potrebbe essersi ispirato, come lo stesso Plotino, allo ὑπερουράνιος τόπος del Fedro e al νοητὸς τόπος della Repubblica.
  10. V 8, 6, 8-9.
  11. IV 3, 11, 1-2.
  12. Fedro, 275 a: “La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi”.
  13. IV 4, 1, 20.
  14. IV 4, 1, 20.
  15. II 8, 1, 11-12.
  16. A. Grabar, Plotino e le origini dell’estetica medievale in Id. Le origini dell’estetica medievale, Jaca Book, Roma 2011 (ed. or.  Les Origines de l’esthétique médiévale  in “Cahiers archéologiques” 1, 1945, pp. 15-34).
  17. II 4, 5, 6-11.
  18. A. Grabar, Plotino e le origini dell’estetica medievale, cit.  pp. 44-45.
  19. V 8, 4, 6-8.
  20. Repubblica, VII, 519 b 3.
  21. G. Rodenwaldt, Zur Kunstgeschichte der Jahre 220 bis 270, “Jahrbuch des deutschen archaologischen Instituts” 51, Berlin 1936, pp. 103-105. Tende ad escludere questa ipotesi H. P. L’Orange, The Portrait of Plotinus, in “Cahiers Archéologiques de la fin de l’Antiquité et du Moyen Âge” 5, 1951, pp. 15-30, il quale afferma che il sarcofago risale agli anni anteriori alla morte di Plotino.
  22. Questa tesi è contestata da W. Beierwaltes, Pensare l’Uno. Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, Vita e Pensiero, Milano 1992 (ed. or. Denken des Einen. Studien zum Neuplatonismus un dessen Wirkungsgeschichte, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main 1985), n. 56, p. 91, il quale osserva che il tentativo di Grabar non spiega i teoremi di Plotino e che la connessione di questi teoremi con l’arte bizantina non è provata.
  23. III 6, 6, 69-77: “La sensazione infatti è dell’anima che dorme, poiché la parte di anima che è nel corpo è dormiente; il vero risveglio consiste nel levarsi davvero senza il corpo e non con esso. Levarsi col corpo vuol dire passare da un sonno all’altro, quasi da un letto all’altro; invece levarsi davvero è separarsi del tutto dai corpi, i quali essendo di natura contraria all’anima hanno per essenza l’opposto all’anima. Di ciò testimoniano la loro generazione, il loro divenire, la loro corruzione che non è della natura dell’essere”.
  24. Vita di Plotino, 12, 1-2.
  25. Vita di Plotino, 9, 5-10.
  26. I 6, 9.
  27. A. Aföldi, A Festival of Isis in Rome under the Christian Emperors of the IVth Century, “Dissertaiones Pannonicae”, ser. 2, fasc. 7, Budapest 1937, pp. 36 ss.
  28. W. Tatarkievicz, Storia dell’estetica. Vol. 1: L’Estetica Antica, Einaudi, Milano 1979
    (ed. or. Historia estetyki. t. 1, Estetyka starożytna, Ossolineum, Wrocław-Kraków 1960), p. 366.
  29. Dante, Epistola a Can Grande, 16   Repubblica, V, 476 c – d.
  30. Repubblica, V, 476 c – d.
  31. Un’analisi assai datata, ma dettagliata, delle modalità che consentono di conseguire questo effetto è fornita da  W. H. Wollaston, The Apparent Direction of Eyes in a Portrait in “Philosophical Transactions of the Royal Society of London” 114, 1824, pp. 247-256.
  32. C. De Sessa,  Le radici storiche del Movimento Moderno. Plotino e l’architettura, Dedalo, Bari 1984, p. 66-77.
  33. Plotino riconosce agli stoici di aver individuato le caratteristiche della materia, ma questi ultimi, rifiutando il trascendente, le hanno erroneamente attribuite alla materia sensibile. Cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta, I, 87 [1]: “Ecco il pensiero di Zenone. La sostanza è la materia prima di tutte le cose, è tutta eterna e non suscettibile né di aumento né di diminuzione”.
  34. II 4, 16, 25.
  35. II 4, 3, 11-13.
  36. II 5, 5, 17.
  37. R. Chiaradonna, La materia e i composti sensibili nella filosofia di Plotino in C. Viano (a cura di), Materia e causa materiale in Aristotele ed oltre, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2016, p. 156.
  38. F. L. Wright, An Autobiography, Pomegranate, Petaluma CA 2005, p. 159.
  39. Simposio, 206 a, 9.